Piergiorgio Sperduti
Alcuni elementi della Commedia dell’Arte
La Commedia dell’Arte (che cosí non si chiamava, a onor del vero) suscita spesso nei moderni l’idea di un teatro romantico, perduto, leggendario; questa sensazione è prodotta dallo studio frettoloso di aspetti quali l’improvvisazione, l’uso della maschera e la presenza delle prime donne sul palcoscenico.

Non è questa la sede per approfondire la conoscenza dei sistemi e della natura della commedia italiana improvvisa; altri — e quanto grandi — studiosi hanno già svolto egregiamente questo lavoro, infatti, nella seconda metà del Novecento e all’inizio del Duemila; eppure si continua a fare, dai palcoscenici e dalle cattedre, molta retorica romantica su una storia che, ormai, non ha quasi piú nulla di misterioso.
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Nelle poche righe che seguiranno mi concentrerò allora su tre aspetti fondamentali dell’Improvvisa e sulle loro origini che, cercherò di dimostrarlo, vanno ricercate nella intrinseca struttura della commedia di quegli antichi italiani la quale, è bene ricordarlo, essendo mestiere, cercava eminentemente il guadagno per mezzo della tecnica: l’improvvisazione, le maschere (in generale: tipi fissi) e la presenza delle donne in scena (novità assoluta). S
ono solo tre dei molti aspetti caratterizzanti la Commedia dell’Arte che da secoli riempiono d’ammirazione studiosi, interpreti e appassionati dell’arte drammatica.
Improvvisazione ● Innanzi tutto dobbiamo sapere che l’improvvisazione non è invenzione: nessun salto nel vuoto davanti al pubblico era ammesso ai comici dell’Arte e, con buona pace di Sand e delle sue serate a Nohant, ad Andreini o a Cecchini non saltò mai in testa di combinare una commedia dando libertà di creazione agli interpreti mascherati. Come tutti i testimoni dell’epoca (Cecchini, Barbieri) e piú recenti (Perrucci, Riccoboni) spiegano, infatti, ogni attore era tenuto a studiare le forme e gli stili del dialogo pertinenti al suo ruolo; materiale scritto ed insegnato durante la concertazione degli spettacoli, cioè, che indicavano con precisione non solo gli atteggiamenti fisici ma anche la maniera di dialogare, di monologare, di scherzare etc. L’improvvisazione ergo rappresentava una cernita, accurata e rapida, durante la messa in scena, del proprio sapere preordinato, sapientemente accordato con tutti i compagni di palcoscenico. Tecnica difficilissima, è facile crederlo; perché allora si giunse a ciò e al lavoro su un canovaccio, lasciando da parte la semplicità di un testo scritto da imparare a memoria? Perché gli italiani furono fra i primi attori costretti a recitare molti testi diversi in poco tempo (al fine di soddisfare lo stesso pubblico per piú sere, ogni volta che si fermavano in una città); e, parallelamente a ciò, scopersero velocemente che una varietà grande di spettatori, giacché grandemente varî erano gli usi e i costumi delle molte provincie italiane, si soddisfa assai meglio mutando, per una stessa commedia, modi e caratteri, tinte e tempi. Era bene dunque variare, sera dopo sera, ogni spettacolo su tanti e tanti aspetti che, alla fine, il copione fisso risultò piú un impaccio al mestiere che un aiuto; e la capacità di declinare con velocità ed empatia la propria parte, a seconda delle richieste della platea e delle circostanze del momento, divenne molto evidentemente uno strumento essenziale del comico professionista. — Nessun piacere romantico, dunque, nessun furore inventivo o divina energia di creazione tumultuavano nel cuore degli italiani sul palcoscenico: era la conoscenza precisa e puntuale di una tecnica di creazione evolutasi con i gran passi della necessità a guidarli; e in questa tecnica, nella ripetitività, nella specializzazione e nella memoria (fissata in zibaldoni che oggi, purtroppo, sopravvivono in numero esiguo) quei comici trovavano essenziali puntelli della riuscita in scena.

Maschere ● L’uso della maschera è il mistero piú incomprensibile della Commedia dell’Arte; dirò meglio: fra tutte le cose che, nella Commedia dell’Arte, sono incomprensibilmente considerate un mistero, la maschera è la piú incomprensibile. Il teatro è sempre stato fatto di figure fisse, difatti, di tipi stereotipati e da tutti conoscibili, mai comparsi in scena a volto scoperto, in grado di muovere storie non tolte alla realtà ma chiare e ordinate (oso di piú: teleologiche) — e questo è vero dalle prime manifestazioni drammatiche greche in poi. Anche il teatro stanislavskiano, con i suoi successi recitativi e le sue bislacche inutilissime ricerche psicologiche, per quanto riguarda lo studio del personaggio, non fece altro che aumentare il numero dei tipi fissi inseguendo, semmai, inconsapevolmente, una sfumatura d’animo dopo l’altra, l’utopia di allargarli a tutti gli esseri in potenza interpretabili. I comici dell’Arte fecero poco piú che andare in scena con i tipi del teatro antico, trasmessi un po’ per tradizione buffonesca e un po’ per memoria dei testi latini, dando loro una mezza maschera in cuoio (che presto scomparve) e le molte lingue dell’Italia secentesca, al fine di garantirsi un pubblico a Venezia come a Roma. La maschera, quindi, intesa come materiale camuffamento del volto e come termine specifico indicante un tipo fisso, risultò misteriosa solo a chi la studiava dall’Ottocento e dal Novecento, quando il suo uso era scomparso, senza risalire con le proprie conoscenze al teatro classico. Dà poi una sensazione distonica, (questa sí ispiratrice!), constatare che, laddove dai moderni l’uso della mezza maschera è percepito come fondamentale e imprescindibile, pochissimi comici dell’Arte ne parlarono e, comunque, lo fecero sbrigativamente e senza alcun interesse; a riprova di quanto siamo in errore, noi, a valutare col giudizio moderno la pratica antica.

Attrici ● Prima delle italiane della fine del Cinquecento, mai una donna s’era veduta recitare, in commedia e in tragedia, una parte d’innamorata o di regina. E se vero è che già presso i greci e i romani interpreti femminili andavano in scena, dobbiamo ammettere che lo facevano in formazioni di mimi, in qualità di danzatrici erotiche, quasi prostitute messe in mostra. L’antica società maschilista non permetteva, invece, alle donne, di avvicinare l’arte drammatica vera e propria — ché perfino gli uomini dediti alla recitazione erano guardati con biasimo ipocrita da quegli stessi che applaudivano. D’un tratto questa legge inderogabile, che bandiva in nome del pudore le donne dalla scena, cadde nell’Italia settentrionale del XVI secolo; il perché e il come son noti (Taviani-Schino prima di tutto) ma qui conviene domandarci some mai cosí velocemente la novità conquistò il teatro italiano. — Le compagnie italiane erano erranti, a differenza delle molte francesi e inglesi (che partivano in tourneé solo per una parte dell’anno e sempre di malumore); e badiamo bene che quelli erano i tempi della forma sociale immobile, del buon ordine della città e della famiglia, dello schema infrangibile del posto occupato nel creato — cosí che le donne erano ovunque destinate a mansioni domestiche e familistiche, costrette nelle cucine e nei campi e presso le culle; tutti posti dove le madri e le sorelle e le figlie dei comici non potevano stare per evidentissime ragioni: di che casa avrebbe dovuto occuparsi la moglie di un attore errante? in quale campo doveva mai faticare la figlia di chi un campo non lo aveva perché sempre viaggiava alla ricerca di pubblici paganti? Le donne di quelle famiglie dell’Arte servivano in scena, allora, perché la scena era l’unico spazio di quelle famiglie. Agli occhi della legge le attrici rimasero sottomesse ai loro uomini e, ufficialmente, il giudizio morale su di loro era orribile; ma nella pratica esse furono forse le prime donne libere del mondo occidentale, perché recitavano (e guadagnavano) come gli attori; saldamente rimanendo in scena se lí il pubblico le gradiva. Quanto lontani siamo da quelle fantasticherie di libertà sessuale e di emancipazione contemporanea che alcuni hanno proiettato su quei lontani, oscurissimi secoli! Le prime attrici italiane, perfino le dive piú famose, recitarono con gli attori perché nelle formazioni attoriali non potevano fare altro ed era impensabile che le loro capacità non fossero sfruttate per il sostentamento della microsocietà comica.
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Speriamo d’aver fatto mostrato, ancorché in modo frettoloso, che la forma della Commedia dell’Arte era un meccanismo funzionale volto al suo stesso successo (quindi correggo il mio meccanismo con organismo): essa dava in pasto al pubblico, come tutte le arti, effetti e sensazioni ed emozioni; non bisogna però confondere queste cose con l’origine del lavoro attoriale (assai meno romantico). Se ancor oggi l’Improvvisa regala sogni e addirittura allucinazioni, ebbene vuol dire solo che la sua capacità produttiva era davvero sopraffina e che le sue attrici ed i suoi attori sapevano perfettamente cosa gli ammiratori desideravano — e desiderano.