Piergiorgio Sperduti
Capitani contrarî nella Commedia dell'Arte
Aggiornamento: 30 mar 2021
Il Capitano della Commedia dell'Arte è un soldato vestito in modo stravagante, dedito ai duelli alle donne al gioco, dotato di una accesa immaginazione che gli suggerisce racconti fantasmagorici di gesta e avventure che, probabilmente, non ha mai vissuto.

Molti attori vestirono questa maschera, fra il XVI e il XVII secolo, facendosi chiamare Matamoros, Rinoceronte, Scarabombardone; ma il piú famoso di loro rimase il capo dei Gelosi, Francesco Andreini, sul palcoscenico Capitan Spavento da Vall'Inferna. Andreini fu comico dell'Arte di fama gloriosa, capitano della maggiore formazione del tempo (i comici Gelosi), marito dell'attrice divina e poetessa Isabella Andreini e padre di Giovan Battista Andreini che riempí delle sue opere l'intera prima metà del Seicento.

Il Capitan Spavento di Andreini fondò il suo successo su racconti mirabolanti e straordinarî, in cui l'erudizione fuori del comune del suo interprete s'univa al gusto coevo per l'esagerazione e la meraviglia. Per capirci: Spavento raccontava d'aver combattuto e sconfitto gli dèi dell'Olimpo, d'aver cavalcato un capodoglio nel mezzo dell'oceano, d'aver schiantato da solo un castello e d'aver visitato molte volte e con gran facilità gli inferi del dio Plutone. Erano tutte prodezze e fantasie artistiche che soddisfacevano il pubblico dell'epoca: le chiese, fra Cinque e Seicento, eran colme di angioletti festanti e grovigli di nubi e spirali di marmo; cosí i teatri rimbombavano delle imprese andreiniane zeppe d'immagini classiche e ammiccanti alla follia moderna e demente di Don Chisciotte. Lo sforzo immaginativo ed artistico di Francesco vide luce in due opere dello stesso comico di cui la prima, soprattutto, Le bravure del Capitan Spavento, rimane un classico fondamentale nella storia del teatro barocco
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Un altro grande attore e capocomico, Pier Maria Cecchini, nel 1628, pubblicò un trattato di recitazione esile ma gustosissimo, intitolandolo Frutti delle moderne comedie ed avisi a chi le recita. Il capitolo dedicato al Capitano, in quest'opera, però, ci descrive qualcosa di assai diverso rispetto alle esagerazione di Capitan Spavento:
« Piace ed è di molto diletto questa nobilissima parte [il Capitano], quando vien però leggiadramente trattata da personaggio […] il quale si esserciti in parole, benché di natura impossibili, tuttavia credibili […] »

Leggiamo dunque un appello alla moderazione e alla verosimiglianza; un consiglio di controllo e trattenimento dell'eccesso, di aderenza alla realtà e alla sue tinte. Io, però, non ho mai potuto far altro che leggere, in queste parole, una tacita censura della recitazione di Andreini, una velenosa frecciata al modo di mettere in scena il Capitano da parte di Francesco.
Occorre infatti ricordare che Cecchini e Andreini furono rivali — nemici, anzi — fierissimi. Sempre in lotta per strappare i favori di un principe italiano o delle corti straniere, costantemente presi da una competizione artistica e personale; e non solo Cecchini ebbe a gareggiare con Francesco, ma pure con il di lui figliolo Giovan Battista; il quale, per dirne una, gli sfilò di mano la direzione della compagnia che nel 1620 si recò dall'Italia a Parigi per rallegrare le cristianissime maestà e guadagnarne oro e alloro. Pier Maria Cecchini, infatti, pur eminente arista del tempo suo, non ebbe polso della diplomazia né intuizione cortigiana: tempestò compagnie di caratura attoriale eccellente ma — stando almeno alle testimonianze — disamorate, riottose, infelici; rincorse sogni di stabilità economica e sociale senza comprendere che i suoi petulanti appelli (soprattutto al Duca di Mantova) per incarichi e remunerazioni trovavano orecchi sordi a desiderî un po' troppo moderni; prese in moglie una comica, Orsola, che lo aiutò a seminar zizzania fra i compagni d'Arte e che si fece ricordare per donna capricciosissima e attaccabrighe. Qual differenza, dunque, fra l'esistenza di Cecchini e quella degli Andreini (prima Francesco e poi Giovan Battista)! Il primo bravo e maledetto; i secondi migliori e costruttori di fortuna. Cerco sempre, quindi, di ricondurre alla misura dell'umano intendimento le pagine — pur fondamentali — dei Frutti. Cecchini era artista di successo e molte volte conobbe la gloria (per esempio nel 1614 ottenne dall'Imperatore Mattia una patente di nobiltà); ma non riuscí mai a raggiungere la fama, costruita con intelligenza ed arte e furbizia, che gli Andreini si cucirono addosso in cinquant'anni di politica pubblicitaria di prim'ordine.
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Penso in conclusione che, nella esegesi delle pagine dei Frutti e della storia dell'Improvvisa piú generalmente, la psicologia possa aiutare come l'analisi dei documenti: ecco dunque che certi accenni di Cecchini, piú censorî che normativi, del capitolo dei Frutti in cui tratta il Capitano, siano da ricondursi a un certo suo rancore, a una certa sua invidia nei confronti del rivale Andreini e del suo stile capitanesco.
E vale questo per ogni trattato dell'Arte. Le nude parole stampate nelle tecniche non sono tutto: esse nascondono i pregiudizî e le preferenze, le idiosincrasie e le propensioni di chi scrisse. Non possono, oggi, illuminare la storia delle tecniche recitative del passato se non private della tara del pensiero dei loro autori.